Carnismo: una parola usata troppo poco rispetto a Vegetarianismo, Veganismo di cui parlano tutti, o anche rispetto a Onnivorismo. Il termine è stato usato da Peter Singer, Susan e Lawrence Finsen, Josh Balk, Michael Pollan, Jeffrey Masson, John Robbins, Eric Schlosser, ma è stato diffuso soprattutto da Melanie Joy, professore di Psicologia e Sociologia all’Università del Massachussets di Boston, in Italia arrivata nel 2012 con il libro Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche (Edizioni Sonda).
Non è forse un caso che, cercando su vocabolari della lingua italiana aggiornati e su Wikipedia, il termine non appaia, dando quindi una plateale conferma a quanto sostenuto dalla Joy: siamo completamente immersi nel Carnismo, lo respiriamo a tal punto che non riusciamo a riconoscerlo e nessun strumento istituzionale ci aiuta a riconoscerlo. E in effetti, se ci pensiamo bene, le idee sono come gli odori: entri in una stanza, senti subito i vari odori presenti ma dopo un po’ l’olfatto si “abitua” e non li distingui più. Così accade spesso anche con i suoni e i rumori: sono i condizionamenti culturali. Il carnismo è uno di questi; diffuso in ogni cosa che facciamo e pensiamo, si muove a passo felpato ed entra a far parte dei nostri scenari più cari, dalla mamma che ci dice “mangia la carne che ti fa bene” alla grigliata sulla spiaggia con la prima compagnia…
La domanda necessaria a farci capire che nuotiamo nel Carnismo – che è quindi un condizionamento e non una scelta – è facile: perché certi animali li vediamo come commestibili e altri no? Che risposta possiamo dare?
Possiamo dire che il cane è il miglior amico dell’uomo e quindi non lo mangiamo? Eppure anche il maiale e il cinghiale sono dotati di un’intelligenza superiore, spesso anche a quella di cani e gatti, hanno una forte capacità protettiva rispetto alle persone a cui sono legate affettivamente e sono degli animali pulitissimi, semplici da tenere anche in giardino e poiché sono onnivori e di buon palato, ci fanno risparmiare un bel po’ in cibo e ci aiutano a non sprecare. I maiali sono coccoloni e il loro manto, fatto di setole non troppo folte, è più facile da spazzolare di quelli di tanti animali che richiedono doverose cure alla mantiglia. Eppure…
Basta guardare la storia di Esther. Nell’estate del 2012 a Toronto, Steve Jenkins riceve da un amico la richiesta di adottare un piccolo maiale, è una femmina ed è una razza selezionata che rimane nana. Il partner di Steve, Derek, è riluttante ad avere questo piccolo animale per casa ma, poiché Esther si rivela veramente adorabile, alla fine accetta. In poco tempo i due scoprono che non c’è nulla di nano in Esther che cresce e cresce in un normale appartamento, creando non pochi grattacapi a tutti, ma ormai l’affetto è innescato e, lungi da pensare di “restituirla” Esther diventa la protagonista di una cronaca quotidiana che appare regolarmente su Facebook e su Youtube. I fan di Esther, ma anche di Steve e Derek, diventano centinaia di migliaia. A questo punto, con la loro vita completamente cambiata dall’arrivo di Esther, sono proprio Steve e Derek a scegliere di cambiare casa per farla stare più comoda: acquistano un’azienda agricola e aprono i battenti ad altri animali, e oggi vivono felicemente in un Santuario per animali salvati da macelli e situazioni difficili. Nel 2016 è uscito anche un libro memoriale che racconta tutta la loro storia.
E non è necessario andare in India per riflettere sulle mucche sacre, basterà andare nella vicina Inghilterra dove non si mangia carne di cavallo. E che dire dei conigli? Come alla roulette russa! Chi capita nella famiglia con il bambino che gli si affeziona e chi capita nella cucina della nonna che lo mette in pentola “come tradizione comanda”.
E se, da buoni carnisti inconsapevoli, pensiamo di mangiare carne perché ci fa bene, perché è “così naturale”, informiamoci su ciò che portiamo in tavola: così impariamo che ciò che troviamo nelle macellerie e nei supermarket è spesso trattato con ossido di carbonio, per dare un bel colore rosso vivo alla carne che altrimenti avrebbe il tipico colore livido della morte, cioè sarebbe inguardabile e immangiabile.
Siamo così immersi in quello che l’industria della carne e el latte e i suoi derivati ci vogliono far vedere, che veramente “non vogliamo vedere” quello che ci nascondono. Siamo così abituati a respirare quest’aria viziata che respirare a pieni polmoni un ossigeno di cose vere ci fa male o paura o tutt’e due. Sappiamo che ci farebbe male e per questo evitiamo: dopo secoli di prigionia, ben accucciati nella cella piuttosto confortevole, chi se la sente di sgranchirsi e improvvisamente mettersi a correre i centro metri?
Vogliamo proteggere noi stessi dalla crisi che inevitabilmente avverrebbe se vedessimo le cose come stanno: siamo i mandanti, gli uccisori dalle mani pulite di milioni di animali che potrebbero avere una vita consona al loro status di esseri viventi intelligenti e senzienti, o anche che avrebbero potuto non venire mai al mondo (le nascite degli animali d’allevamento sono sempre frutto di inseminazioni artificiali) e invece sono destinati a essere trasformati rapidamente in salsicce o bistecche. Siamo, in una parola, carnisti.
In fin dei conti l’onnivoro è il carnista che si autoassolve: pensiamoci su!
Ilaria Beretta