Avvicinandosi la data del 17 aprile, quando gli Italiani saranno chiamati alla consultazione referendaria per porre un limite temporale alle concessioni relative all’ estrazione di idrocarburi tramite impianti situati entro dodici miglia dalle coste italiane, si fa sempre più serrata la dialettica fra coloro che votando sì, vogliono che per queste concessioni sia rispettata una scadenza, e coloro che invece pretendono che le estrazioni di petrolio e gas proseguano a tempo indefinito fino all’esaurimento dei giacimenti.
Le piattaforme marine per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi di fronte alle coste italiane sono 135, 48 entro le 12 miglia dalla costa. Attualmente risultano produttive 79 piattaforme, 68 estraenti gas e 11 petrolio, tramite 463 pozzi sottomarini. La maggior parte si trovano nell’Adriatico romagnolo e marchigiano (47 piattaforme alimentate da 319 pozzi). Segue l’Adriatico abruzzese (22 piattaforme collegate a 70 pozzi), il Mar Ionio (5 piattaforme e 29 pozzi) e il Canale di Sicilia (5 piattaforme e 45 pozzi). Nell’ultima Legge di Stabilità sono state bloccate nuove ricerche in mare entro 12 miglia dalla costa, facendo però continuare fino ad esaurimento i giacimenti attualmente scoperti. In questo modo il Governo ha cercato di evitare il Referendum “anti trivellazioni” richiesto e promosso da 9 consigli regionali: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise.
Senza entrare nel merito specifico del quesito referendario, scritto (volutamente) in forma criptica: <strong>«Volete voi che sia abrogato l’art.6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n.152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art.1 della legge 28 dicembre 2015, n.208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)”,limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?»</strong> l’Associazione Vegetariana Italiana (A.V.I.), che fra le finalità statutarie annovera l’amore per la natura e la promozione delle iniziative tendenti a preservare e mantenere l’ambiente sano e naturale, intende esprimere al riguardo alcune considerazioni.
L’accanimento con il quale viene avversato questo referendum dimostra chiaramente come il risultato del voto travalichi il quesito tecnico per cui gli italiani dovranno esprimersi. E cioè se l’Italia vuole incamminarsi veramente verso un futuro sostenibile, ricorrendo in misura sempre maggiore verso fonti energetiche rinnovabili e non inquinanti, oppure stare barricata, fino all’esaurimento, alle fonti fossili che, formatisi in milioni di anni, in appena due secoli sono state male usate e sperperate con le conseguenze ambientali e climatiche che sono sotto gli occhi di tutti. E dato che la stragrande maggioranza di coloro che parteciperanno alla consultazione referendaria si esprimeranno per una scelta di vero progresso, votando sì, il Governo ed i potentati economici che traggono profitto da un certo modo di usare ed abusare delle risorse offerte dal territorio e dall’ambiente cercano di invalidare il voto che verrà espresso invitando gli Italiani a disertare le urne. Perché se non voterà almeno il 50 % degli aventi diritto, la consultazione verrà dichiarata nulla. Ci si chiede allora perché lo stesso criterio non viene adottato per tutte le consultazioni elettorali visto ad esempio che, nelle ultime elezioni regionali in diverse regioni non è stato raggiunto il quorum del 50% dei votanti (nelle Marche ha votato il 49% degli aventi diritto, in Calabria il 43%, in Emilia-Romagna un misero 38%). Si è cercato così di dare meno visibilità possibile al referendum, e ci si stava riuscendo, anche se gli ultimi fatti di cronaca, svelando una volta di più il conflitto di ruoli ed interessi di chi a vari livelli ci governa, sembra spingere un sempre maggior numero di Italiani ad interessarsi delle scelte strategiche relative all’energia ed agli impatti, spesso devastanti, sull’ambiente e sul territorio, di determinate attività antropiche.
I fautori delle trivellazioni ad oltranza, sperando nell’insuccesso del referendum, stanno diffondendo dati entusiastici relativi all’occupazione e all’economia derivanti dall’attività delle piattaforme di estrazione.. Ma anche questi dati non sono veritieri e sono loro controproducenti.
Infatti, ottenutala la concessione, gli idrocarburi diventano proprietà di chi li estrae. Per le attività in mare le società petrolifere dovrebbero versare al nostro Stato il 7% del valore del petrolio e il 10% di quello del gas, perciò il 90-93% degli idrocarburi estratti può essere portato via e venduto altrove. Sono inoltre esenti dal pagamento di aliquote allo Stato le prime 20 mila tonnellate di petrolio ottenuti annualmente in terraferma, le prime 50 mila tonnellate di petrolio prodotte in mare, i primi 25 milioni di metri cubi di gas estratti in terra e i primi 80 milioni di metri cubi provenienti da giacimenti marini: entro quei limiti è tutto gratis. Perciò nel 2015, su un totale di 26 concessioni produttive solo 5 di quelle a gas e 4 a petrolio, hanno pagato le royalties. Tutte le altre hanno estratto quantitativi tali da rimanere sotto la franchigia e quindi non versare nulla a Stato, Regioni e Comuni.
Ma altrove le imprese straniere trovano ben altre condizioni: in Danimarca, dove si applica un prelievo fiscale per le attività di esplorazione e produzione, questo arriva fino al 77%. In Inghilterra può arrivare fino all’82% mentre in Norvegia è al 78% a cui però bisogna aggiungere il canone di concessione. Con royalties al 50% nel 2015 l’Italia avrebbe avuto entrate per circa 1.400 milioni di euro invece di 352 milioni. Cifra del resto sperperata per il referendum (costo 350 milioni), visto che la consultazione poteva farsi a costo zero accorpandola alle prossime elezioni amministrative. Ma in questo caso si sarebbe raggiunto il quorum, avrebbe vinto il sì ed il Governo avrebbe dovuto rivedere le sue scelte. Ed anche i canoni per la prospezione, ricerca, coltivazione e stoccaggio sono bassissimi: 3,59 euro a kmq per le attività di prospezione, 7,18 per i permessi di ricerca, fino ai 57,47 euro circa a kmq per le attività di coltivazione. Con le royalties inoltre dedotte dalle tasse è innegabile che le società petrolifere godono in Italia di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo, mentre i posti di lavoro a rischio per un possibile calo del turismo, una diminuzione della bellezza e della salubrità del paesaggio, sono molti di più di quelli che nel corso dei prossimi anni si perderebbero man mano che scadono le licenze. Infatti non solo per eventuali incidenti, ma anche per operazioni di routine, il mare e le coste corrono seri pericoli ambientali. In mare aperto la densità media del catrame depositato sui nostri fondali raggiunge una densità di 38 milligrammi per metro quadrato: tre volte superiore a quella del Mar dei Sargassi, che è al secondo posto di questa classifica negativa con 10 microgrammi per metro quadrato. Un gran numero di piattaforme produce sedimenti con un inquinamento oltre i limiti fissati dalle norme comunitarie per almeno una sostanza pericolosa. I dati vengono da una fonte ufficiale, il ministero dell’Ambiente: si riferiscono a monitoraggi effettuati dall’Ispra, un istituto di ricerca pubblico sottoposto alla vigilanza del ministero dell’Ambiente, su committenza di Eni, proprietaria delle piattaforme oggetto di indagine. Gli impianti estrattivi di idrocarburi in mare mettono a rischio le vere ricchezze sulle quali dovrebbe puntare l’Italia: il turismo, che costituisce il 10% del Pil nazionale, impegna quasi 3 milioni di addetti, per un fatturato di 160 miliardi di euro; il patrimonio culturale, che vale il 5,4% del Pil e garantisce lavoro a 1 milione e 400.000 persone. Settori che, con scelte lungimiranti, potrebbero crescere ancora.
Ma i potenziali pericoli per le coste italiane non sono costituiti soltanto da eventuali perdite di materiale estratto dove, in un mare basso come l’Adriatico, anche limitati sversamenti possono inquinare centinaia di Km di litorale. L’ambiente costiero infatti è un sistema altamente dinamico e sottoposto a fenomeni di erosione, e quindi di arretramento della linea di costa. Sebbene in generale il clima sia da considerarsi come il principale motore degli agenti modificatori, localmente la subsidenza indotta da estrazioni di fluidi dal sottosuolo risulta essere la più accreditata.
A conferma che la subsidenza è provocata dall’estrazione di gas al largo della costa dell’Emilia Romagna, proprio in questi giorni il Consiglio Comunale di Ravenna ha chiesto all’Eni di chiudere la piattaforma offshore Angela Angelina prima della scadenza della concessione. Angela Angelina è la piattaforma più vicina alla costa tra le 47 attive in Emilia Romagna per l’estrazione di gas entro le 12 miglia, ed opera a soli 2 km dalle spiagge di Lido di Dante. È attiva dal 1975, tramite 4 pozzi. La concessione dovrebbe arrivare a scadenza naturale l’1 gennaio 2027, ma questa attività ha causato e sta causando un notevole abbassamento del territorio di Lido di Dante. Quello del Consiglio Comunale di Ravenna è un voto ancora più significativo perché viene da una maggioranza (PD-Repubblicani) che è ufficialmente schierata per il no/astensione al Referendum del 17 Aprile, però, dinnanzi all’evidenza, non ha potuto non approvare la mozione anti-piattaforme e subsidenza. Per quanto riguarda la subsidenza risulta che la velocità di abbassamento della costa è aumentata sensibilmente a seguito della riperforazione del pozzo nel 1998. Fino a quell’ anno la subsidenza era di 1,2 cm all’anno, ma negli anni successivi si è arrivati alla media di quasi 2 cm ogni anno. Nell’Alto Adriatico infatti l’abbassamento del suolo, con conseguente erosione delle spiagge, costituisce la minaccia più concreta per l’economia di un territorio impostata soprattutto sul turismo. Relativamente ai 100 Km della costa romagnola i dati dei monitoraggi evidenziano che negli ultimi 50 anni la costa si è abbassata di 70 cm a Rimini e di oltre 1 metro da Cesenatico al delta del Po. La perdita continua di sabbia obbliga a continui ripascimenti delle spiagge e, anche tralasciando i danni ambientali, il costo economico di queste operazioni non viene neppure pareggiato da quanto le compagnie estrattive versano come royalties. E così il costo per la collettività causato dalle estrazioni sotto costa, risulta di gran lunga superiore del vantaggio che ne deriva.
Per i suesposti e tanti altri motivi l’A.V.I. pertanto ritiene si debba appoggiare questo referendum. Per dare una svolta, per incamminarci verso scelte che non comportano l’avvelenamento di acqua, aria, suolo, cibo; per superare il modello energetico fondato sulle energie minerali fossili. Il voto del 17 Aprile, al di là della specificità del quesito, deve essere un forte segnale per una transizione alle energie rinnovabili e pulite, non una delega in bianco agli interessi delle lobbies energetiche. Che si “impegnano” ad indirizzarsi verso forme di energie non inquinanti e sostenibili una volta esauriti i giacimenti di idrocarburi. Ma l’Età della Pietra non è mica finita perché erano finite le pietre!
Onide Venturelli
Vicepresidente Associazione Vegetariana Italiana