Già nell’antichità muffe e piante venivano usate per curare vari tipi di infezioni e alla fine del 19° secolo iniziarono studi relativi al potere battericida di alcune muffe.
Ricerche approfondite vennero intensificate con la scoperta casuale della penicillina nel 1928 da parte di Alexander Fleming e diversi anni dopo Ernst Chain e Howard Walter Florey riuscirono a ottenere antibiotici in forma pura. Si definisce antibiotico una sostanza prodotta da un microrganismo capace di ucciderne altri. Il significato della parola (dal greco) è «contro la vita». Il termine nell’uso comune attuale indica un farmaco, di origine naturale o di sintesi, in grado di rallentare o fermare la proliferazione dei batteri. Per queste scoperte ai tre scienziati nel 1945 venne assegnato il premio Nobel per la medicina. Con la produzione e l’immissione sul mercato di farmaci antibiotici è stato così possibile trattare diverse patologie che prima di allora portavano alla morte gli ammalati in una alta percentuale di casi. Ma l’utilizzo massiccio e spesso inappropriato degli antibiotici ha contribuito alla comparsa di batteri resistenti perchè l’abuso di questi farmaci, con l’andare del tempo, ne causa l’inefficacia, in quanto i microrganismi sono in grado di sviluppare una resistenza nei confronti di una sostanza che viene assunta con frequenza. L’antibiotico-resistenza rende il microrganismo immune all’antibiotico, annullandone perciò gli effetti.
Così, da diversi anni, ricerche sempre più numerose e mirate hanno iniziato ad evocare lo spettro dell’apocalisse antibiotica, con batteri che potrebbero aggredire le popolazioni dato che non verrebbero contrastati da antibiotici ormai risultanti privi di efficacia. Secondo un rapporto commissionato dal governo Cameron all’economista Lord O’Neil, siamo ormai a un passo dalla pandemia, ovvero a un’epidemia estesa a livello globale, che nel 2050 rischia di causare dieci milioni di vittime all’anno. L’assunzione spropositata di antibiotici non avviene soltanto attraverso la somministrazione diretta dei farmaci, ma, da parte degli umani “carnivori”, anche, e forse sopratutto, attraverso l’alimentazione carnea. Perchè questo? Perchè, anche se attualmente nei paesi dell’UE è vietato l’uso non terapeutico degli antibiotici come promotori della crescita, negli allevamenti intensivi agli animali vengono somministrate elevate quantità di queste sostanze al fine di scongiurare le malattie causate dalle condizioni innaturali in cui sono costretti a vivere e dalla loro debolezza congenita, risultato di manipolazioni genetiche che danno luogo ad animali iperproduttivi, ma che si ammalano più facilmente. Come risultato abbiamo che anche gli antibiotici si accumulano nella carne degli animali, e quindi chi se ne ciba ingerisce di conseguenza anche tutte le sostanze in essa contenute. Per quanto riguarda l’utilizzo “umano” di antibiotici i dati del 2012, aggregati nei mesi scorsi in un report dalle agenzie europee Efsa, Ema e Ecdc, mostrano che gli Italiani ne consumano annualmente 621,6 tonnellate. Ma gli stessi dati rivelano che ben il 71% delle 2155 tonnellate di antibiotici vendute nel nostro Paese è destinato agli allevamenti. In Italia infatti, oltre a 60 milioni di persone circa, “vivono” 9 milioni di bovini, 9 milioni di suini, quasi 13 milioni tra ovini e caprini, 500 milioni di polli “da carne”, 50 milioni di galline ovaiole, oltre 100 milioni di conigli e altri milioni di animali «da produzione» come i pesci. La quantità di antibiotico usato negli allevamenti italiani è stato spesso sottostimato, perché sconosciuto, fino a pochi anni fa. E se uno studio della Princeton University ha puntato il dito contro la Germania come maggior utilizzatore in Europa, facendo riferimento a dati del 2010, quando ancora non erano disponibili dati comparabili per l’Italia, secondo i dati aggregati dalle agenzie europee, invece, già nel 2012 l’Italia era di poco seconda a Germania e Spagna per utilizzo di antibiotici negli allevamenti, con 1534,3 tonnellate utilizzate annualmente, con il primato negativo assoluto per quanto riguarda l’utilizzo in relazione alla produzione: 341 mg di antibiotici utilizzati per ogni chilo di massa prodotta, contro Francia e Germania ferme rispettivamente a 99 mg e 205 mg, e una media europea di 140 mg. E dato che un batterio può transitare più o meno direttamente da un allevamento ad una persona, sia per contatto diretto, sia, in maniera indiretta, tramite l’alimentazione, possiamo facilmente immaginare quale quantità di antibiotici assuma una persona che abitudinariamente continua a consumare carne. Ma la politica, al di là degli annunci, cosa sta facendo, realmente, per cercare di risolvere il problema alla radice? Poco o nulla. Ad esempio non si mette in discussione un sistema alimentare basato sulla “produzione” ed il consumo di carne, la maggior parte proveniente da allevamenti intensivi, consumatori del 70% degli antibiotici prodotti. Così, se negli ultimi decenni gli antibiotici hanno consentito il progresso della medicina e hanno sconfitto i batteri patogeni, adesso sono sempre meno efficaci contro quelli che colonizzano l’uomo, l’ambiente e gli animali che vengono allevati e mangiati.. Studi commissionati dall’Unione Europea hanno accertato che gli intestini di avicoli macellati provenienti da allevamenti intensivi contenevano percentuali preoccupanti di batteri resistenti. Batteri che si ritrovano nel piatto coloro che mangiano animali, perché le linee di macellazione non proteggono integralmente dalla contaminazione. Nonostante ormai si conoscano le cause, per non urtare interessi particolari non si mette mano seriamente al problema, anzi non sembra esserci interesse a renderlo noto.
Di questa situazione le vittime non sono quindi soltanto gli animali, costretti ad una vita infernale che termina con una morte atroce, ma anche gli umani che, nel ruolo di consumatori, ne mangiano le carni. Ma allora, perché aspettare decisioni politiche calate dall’alto? Perché non cambiare?
Onide Venturelli
vicepresidente Associazione Vegetariana Italiana