L’ipocrisia sta allo specismo come i macelli stanno alla carne.
L’ipocrisia è un atteggiamento estremamente diffuso nella nostra società ed è scoraggiante constatare che la gente non se ne rende conto semplicemente perché non ha nessuna voglia di farlo. Qualcuno – eccezione che conferma la regola – ha talvolta I’impressione che il suo atteggiamento sia incompatibile con ciò che proclama essere la sua morale, ma preferisce razionalizzare le proprie azioni per rimuovere dai suoi pensieri ogni sospetto di comportarsi in maniera ipocrita.
In tutti i casi il risultato pratico è lo stesso: il proprio egoismo viene perpetuato, giustificato e infine occultato.
Gli animali sono indubbiamente le prime vittime, i primi a pagare letteralmente con la loro pelle quell’ipocrisia che ognuno preferisce vedere solo negli altri.
Penso a quegli “animalisti” che fanno professione di fede antivivisezionista ma che all’ora di cena “vivisezionano” sul loro piato il loro animale quotidiano. Insomma, il bisturi del vivisettore sul povero gatto no, ma il coltello del macellaio sul non meno povero vitello sì. Perché? “Perché è una cosa diversa”; “perché mio marito vuole che gli cucini la carne”; “perché la carne è indispensabile”; “perché non bisogna essere estremisti”; “perché non si può essere perfettamente coerenti”. Tutti argomenti pretestuosi per nascondere – soprattutto a se stessi – che è sempre molto più facile condannare le azioni altrui che rinnegare le scuse che servono a giustificare le proprie.
Di ipocrisia traboccano anche la leggi, quelle leggi che puniscono giustamente con l’ergastolo chi torturasse e uccidesse un bambino, ma che infliggono solo una sanzione amministrativa – una multa – a chi tortura e uccide qualunque animale non umano inutilmente. E non sfugga l’importanza cruciale di questo avverbio, “inutilmente”: basta una qualunque insignificante e solo eventuale utilità per l’uomo, per trasformare qualunque esperimento di vivisezione, per quanto crudele, automaticamente in lecito o perfino obbligatorio.
Come si può giustificare, se non facendo ricorso all’ipocrisia e a una insensibilità senza limiti, l’avvelenare a morte milioni di esseri non meno senzienti, sensibili e innocenti di un bambino umano per testare l’innocuità di un nuovo lubrificante per motori?
E che dire degli allevamenti e dei macelli in cui muoiono, soffrendo, milioni, miliardi di innocenti solo perché agli uomini piace il sapore della carne? Possibile che uccidere solo per le proprie papille gustative non sia ancora abbastanza inutile?
Eppure la gente continua a riempirsi la bocca di carne e parole come “la sacralità delle vita”, “il rispetto per la natura”, “l’amore per gli animali”, parole intrise di ipocrisia e del sangue di quegli innocenti di cui decretano lo sterminio, raccomandando nel contempo amore e rispetto.
Inutile negarlo: noi vogliamo far finta di non vedere per potere dimenticare di essere un tiranno la cui dominazione, come ogni dominazione, genera una ideologia fittizia – ipocrita, appunto – che serve a giustificarla. La più vergognosa di queste ideologie, l’apoteosi dell’ipocrisia, oggi si chiama “specismo”.
Lo specismo sta alla specie come il razzismo e il sessismo stanno rispettivamente alla razza e al sesso ed è cioè la volontà di non prendere in considerazione (o di prendere in minore considerazione).
Gli interessi di alcuni per il vantaggio di altri usando come pretesto delle differenze reali o immaginarie ma sempre prive di nesso logico con quelle differenze di trattamento che dovrebbero giustificare.
Lo specismo è ciò che permette di vivisezionare uno scimpanzé semplicemente in quanto non umano, definendo il suo aguzzino “scienziato” e nel contempo di sbattere in galera le persone che lo liberassero dalla tortura, definendoli “criminali”. Lo specismo è ciò che permette al macellaio di vendere la carne di anemici vitelli strappati alla madre appena nati e di far dire ad alcuni che i vegetariani sono degli isterici perché si oppongono a questo abominio e a troppi altri.
Lo specismo è ciò che permette di reificare, di identificare con degli oggetti sotto il profilo della considerazione morale, ogni animale non umano per poter garantire che la cecità degli uomini alle loro sofferenze sia universalmente accettata come normale.
Una volta realizzato che questa è la triste realtà che dobbiamo affrontare rimangono solo due alternative: accettarla o impegnarsi per cambiarla e se si è scelto la seconda strada bisogna rendersi conto che la decisione di diventare vegetariani è una condizione fondamentale e necessaria ma non sufficiente per essere parti attive nel processo di cambiamento che auspichiamo. Vivere una vita da vegetariani non è una “scelta personale” quella da cui dipendono la vita o la morte di centinaia di esseri senzienti che possiamo scegliere, noi e solo noi, di salvare o ammazzare?
Il vegetarismo è una scelta politica nel senso più nobile (ed etimologico) di questo termine e ciò significa che ogni persona che ha scelto di abbandonare la strada dell’ipocrisia e di aprire gli occhi non può non agire concretamente affinché le altre persone che compongono la nostra “polis”, la nostra società cosiddetta civile, facciano lo stesso. Insomma se i vegetariani credono in ciò che hanno deciso di essere non possono non volere un mondo di vegetariani e un mondo di vegetariani rimarrà sempre solo un’utopia senza un impegno che parta da un cambiamento dentro noi stessi ma che deve avere come fine un cambiamento dentro gli altri. Rifiutare il mondo di macelli e macellai che ci circonda e chiudersi in sè stessi non serve a salvare le vite bisogna mostrare il loro sangue a chi non lo vuol vedere.
*l’articolo è tratto dal n.121 della rivista di A.V.I. “L’Idea vegetariana”, scritto da Lorenzi Marco.