Uccidere un animale, sfruttare il suo corpo per trarne cibo, pelli o forza lavoro è sempre un atto ingiusto.
La nostra cultura è così calcificata nei suoi pregiudizi, così radicata in millenni di abitudini brutali, che ci fa credere legittimo utilizzare gli altri animali per i nostri scopi. Cade in secondo piano di fronte alle pretese della consuetudine e del profitto il fatto che anche gli altri animali come noi sono esseri senzienti, dotati di una personalità ed emotività propria, di una capacità di pensiero (più o meno sviluppata) e di un interesse autentico per la propria esistenza. In nome di una tradizione sanguinaria e del guadagno di pochi si trascura il loro diritto a vivere ed essere liberi.
Ai più sembra naturale considerare un animale come oggetto di proprietà, come qualcosa di funzionale ai nostri bisogni, da allevare con ipocrita benevolenza fino al momento di abbatterlo. Quando parlano di rispetto per la vita degli animali, forse ritengono che non infranga questo principio rinchiuderli in un recinto con il deliberato proposito per il futuro di ucciderli e mangiarli. Ciò che è valido per un cane o un altro animale domestico, deve essere valido ugualmente per tutti gli animali, anche quelli catalogati in gergo come “da reddito” o “da carne”.
Il diritto che ci arroghiamo di trarre vantaggio dalle loro vite, come si trattasse di pura merce, non ha nessun fondamento etico e va rigettato come la peggior forma di discriminazione praticata dall’Uomo ai danni dell’altro. Come non ha senso discriminare qualcuno in base al popolo, alla razza o al sesso a cui appartiene, non ha nessun senso discriminarlo se appartiene ad un’altra specie.
Uccidere un animale, crescerlo in cattività è sempre sbagliato: indiscriminatamente dal trattamento più o meno grazioso che gli accordiamo.
Ma diventa certamente più grave nel caso in cui per speculare sulla sua morte aumentino la crudeltà, la barbarie e la totale indifferenza nei suoi confronti. Le leggi della concorrenza applicate all’industria dell’allevamento hanno portato ad un grado di atrocità e di negligenza inimmaginabile per il consumatore medio, assuefatto dalla pubblicità ad immaginare come creature felici e ridenti, su vasti prati, gli animali che ritrova ogni giorno nel proprio piatto fatti a pezzi.
Oggi giorno in Italia gli animali allevati in un contesto rurale, secondo modalità tradizionali, sono una minoranza irrisoria, circa l’un per cento, rispetto alla stragrande maggioranza delle vittime che vivono stipate nell’oscurità dei capannoni, sottoposte ad ogni genere di sevizie e torture, impazzite per lo stress e imbottite di medicinali per non contrarre malattie ed infezioni.
I polli da batteria abitano gabbie affollate, in cui ad ognuno è concesso occupare uno spazio grande quanto un foglio A4. I loro corpi sono così appesantiti dall’alimentazione iperproteica a cui sono costretti, al punto di non potersi nemmeno reggere sulle zampe: caracollano estenuati sui propri escrementi. La disperazione li porta al cannibalismo e per questo alla nascita viene tagliato loro il becco, lasciando dolorosamente scoperte le terminazioni nervose. Molti non sopravvivono a questo trattamento. I pulcini maschi, visto che non potranno mai dare uova, vengono passati direttamente in un trita carne e trasformati in mangimi.
Ai suini invece ancora neonati vengono strappati denti e genitali, naturalmente senza anestesia. Ingrassati nel tempo più breve possibile in condizioni deprecabili, sono ancora cuccioli quando li trasportano al macello. Come altri animali, sanno dove sono diretti e perché escano dai camion e si incamminino verso la morte quasi sempre devono essere picchiati, pungolati e trascinati a forza. Una volta sgozzati o sparati, capita che siano ancora vivi quando gli operai li immergono nelle vasche d’acqua bollente.
Sono solo esempi: potremmo continuare a lungo sulle crudeltà inflitte agli animali dall’industria della carne (per non parlare di quella della moda). È già sufficientemente evidente quanto sia scabrosa questa realtà che cercano in tutti i modi di nasconderci, noi che vi partecipiamo e contribuiamo ad alimentarla. Non è un caso se quasi tutti gli allevamenti intensivi e i macelli sono stati accortamente dislocati nelle periferie, lontano dagli occhi e dalle coscienze.
Dobbiamo metterci nei panni delle vittime, adottare il loro punto di vista. È troppo facile altrimenti razionalizzare ed accettare i torti che subiscono per causa nostra. Non dobbiamo lasciare che nessuna filosofia, nessuna visione del mondo si metta tra di noi e la nostra compassione, perché siamo noi gli unici responsabili di questa sconcezza e siamo noi gli unici che possono fermarla. Quando in un supermercato compriamo le parti smembrate di un animale, sapientemente travestito da arrosto, bistecca o prosciutto, siamo altrettanto colpevoli della sua morte quanto il carnefice che è stato pagato per scannarlo. La soluzione è semplice: basta cambiare le nostre abitudini alimentari, comprare prodotti dietro i quali non si nascondano la sofferenza e l’orrore che brevemente abbiamo cercato di raccontare.
Il livello di civiltà a cui siamo assurti non ci permette di ignorare questa realtà. Non possiamo tollerare che il progresso materiale raggiunto negli ultimi due secoli sia completamente avulso da un progresso morale altrettanto significativo che comprenda anche gli animali non umani. Non basta migliorare le condizioni in cui sono detenuti e ammazzati. La loro dignità non può essere oggetto di compromesso. È questo il primo, imprescindibile motivo per essere vegetariani: l’olocausto deve finire. Per questo il vegetarismo si pone come un dovere morale.